Roma


                                                                                                                         
 
Nella primavera del '60 Parise decide di lasciare Milano per Roma. 
Aveva scritto all'amico Comisso il 20 febbraio da Milano:

"Tra una settimana parto per Roma dove resterò quasi stabilmente data l'impossibilità per me di stare ancora a Milano. Le ragioni sono molte, par¬te delle quali puoi immaginare, sento proprio che devo cambiar aria e rifarmi una pelle sana al Sud dopo tanto noioso smog. Mi annoio atrocemente, e non della dolce noia del Veneto, la noia dolcissima e turca del nostro soffice terreno di piume, ma di una noia acre e inutile, impiegatizia e tramviaria, da grandi magazzini asettici. Insomma mi sento proprio come un aquilone sotto la pioggia, vado a ritrovare il sereno oppure la procella dei mari del sud, basta con questo libeccio che soffoca i voli..."1

Ricorderà così il suo arrivo a Roma sul Corriere della Sera nel '72:
"Quando a trent'anni sono sceso a Roma, è stata la liberazione. Ho incontrato l'Italia..."2

Roma è una tappa importante nella vita di Parise. 
Ancora, in quei giorni, scrive a Comisso:

"...Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la mia fantasia...Vivo insomma intensamente ancora i giovani anni che mi restano, nel modo che mi è congeniale, nell'estro e nel disordine dell'avidità, nel sogno e nell'avventura..."3

Parise incontra a Roma gli intellettuali che animano gli ambienti letterari e stringe amicizie che dureranno tutta la vita con Montale, Piovene, Moravia. 
Qui fa anche importanti esperienze come sceneggiatore per grandi registi fra cui Mauro Bolognini in "Agostino" e "Senilità", Tonino Cervi per "Ritratto di borghesia in nero", Fellini per "Boccaccio '70" e "Otto e mezzo", Marco Ferreri ne "L'ape regina", con una sceneggiatura ispirata a "La moglie a cavallo", una farsa stralunata, grottesca ed esilarante sul cosiddetto "legame" coniugale.4

Nel '61 parte per gli Stati Uniti su incarico del produttore Dino De Laurentiis che vuole da lui un soggetto americano. 
Del viaggio americano lo scrittore parla come di un vero e proprio "choc conoscitivo".
E' la scoperta della "società di massa", in cui annusa l'odore di una miseria che, dice:

"... non è miseria umana, biologica, naturale, antica anche e spaventosa, ma è miseria disumana, chimica, vecchia senza essere antica, è miseria morale, è schiavitù delle schiavitù"5

A New York Parise ritrova Truman Capote, conosciuto a Venezia dieci anni prima, in una memorabile serata al Morocco in compagnia di Marylin:

"...scarpe da tennis impolverate, niente calze, capelli arruffatissimi biondissimi e occhiali, occhiali da vista.
Una ragazza bionda di piccola statura ma di proporzioni perfette...
Le sue mani non erano splendide, ma tutto il resto, sebbene così modesto e impoverito, il resto sì, era splendido e solo allora la riconobbi. 
Era Marilyn Monroe".6
 
Audio Parte 1
 

 
 
   
 

 
 

 In America Parise tornerà per due mesi nel '75, in un'unica tappa a New York, ma quello choc del '61 ha segnato il suo destino di scrittore-viaggiatore sulle rotte verso tanti paesi del mondo in cui ritroverà spesso l'America come arbitro e regista, non sempre occulto, di destini collettivi.

"...L'America, e dunque New York sono il "caput mundi", quello che Roma e l'impero romano furono duemila anni fa.
La rivoluzione "consumistica" che per l'uomo d'oggi ha la stessa importanza della rivoluzione agricola per l'uomo preistorico, è nata e si è sviluppata in America...
Allora cominciò l'americanizzazione dell'Europa, specialmente dell'Italia. 
Cosa avvenne? 
Avvenne semplicemente, con un silenzio e una mancanza di informazione tipica dei processi biologici, che il modo di vivere italiano cominciò a scomparire per lasciare il posto al modo di vivere americano. 
Scomparve dall'Italia la povertà, la vera povertà, nacque il benessere, ma scomparve anche la vecchia cultura, e apparve la nuova cultura, quella di cui ho fin troppo parlato in alcuni contrastati articoli sul "Corriere della Sera" nell'estate scorsa.
Non me la sento qui di riassumere ancora una volta cos'è la nuova cultura, o meglio lo farò, ma solo in due parole: è la tecnologia e non la scienza.
Di questo avvenimento fondamentale per il nostro paese (ma non soltanto per il nostro paese), furono in pochissimi ad accorgersi, pochissimi conobbero e toccarono con mano, con la mente e il cuore, cioè con la propria stessa vita, la "grande rivoluzione". 
Alcuni, come Pasolini con disperazione e fino all'annientamento della propria persona fisica. 
Altri, come me, con uno stato d'animo dapprima altrettanto disperato, poi con l'energia che dà sempre la cultura, ogni giorno di più interlocutorio."7
 
Parise compie in questi anni gran parte di quei viaggi che racconta in memorabili réportages sul "Corriere" e in libri di grande interesse sui luoghi "caldi" del pianeta.
Su questa sua identità di giornalista-scrittore egli afferma:

"Quando uno scrittore decide di partire verso un paese sconvolto da avvenimenti politici e da azioni militari ciò che lo spinge al viaggio non è la passione politica o la passione militare: è la passione umana.
La passione umana è una specie di fame fisica e mentale che porta a confondere il proprio sangue con quello degli altri, in luoghi o paesi che non siano soltanto quelli della propria origine...
Il fine è quello di partecipare, come per una trasfusione, di quel sentimento molto più confuso, molto meno schematico, ma certamente più "eterno" che, nell'insieme delle sue componenti, domina il popolo di quel paese sconvolto..."8

Parte allora come réporter di guerra nel '67 per il Vietnam dove, ricorda:

"partimmo in centouno, tornammo in trentasei vivi"

nel '68 va in Biafra, in un viaggio che definirà

"un viaggio nell'orrore"10 
 
"Due,tre cose sul Vietnam" del '67 e "Biafra" del ‘68 parlano di queste esperienze, come "Cara Cina" del '66, il primo dei suoi libri di viaggio, una somma di réportages autonomi nel contenuto ma legati dalla inesauribile esigenza di conoscere, vedere, quasi aderire fisicamente alle cose.
Il libro racconta la sua scoperta di quel mondo, da Canton a Hong Kong, da Pechino a Shanghai, in una serie di flash su una Cina che lo scrittore quasi ausculta, cogliendone lo stile e l'atmosfera più autentica, con profondo intuito ma soprattutto con grande rispetto.

Lucido osservatore degli eventi cruciali di quegli anni, fedele alla sua indipendenza di giudizio, Parise non di rado si rivela testimone scomodo e controcorrente, come quando, ricordando a dieci anni di distanza il suo viaggio a Parigi nel '68, scrive sul maggio francese:

"Nel 1968 ebbi una precisa sensazione…che ci fosse l'invasione di un ideologismo verbale, addirittura fluviale. Ricordo che andai a Parigi e mi resi conto che dietro quel marasma, apparentemente rivoluzionario, c'era il vuoto. Però molti ne ebbero un'impressione grandiosa...e ancora si parla del '68 come di un anno di grande importanza storica, esagerando enormemente, producendo confusione e retorica"11

Budapest, Mosca, Leningrado, Cile, Cuba, Albania,Siberia, Mongolia, Giappone, Laos, CAMBOGIA sono altre tappe di questo itinerario che Parise costruisce, spinto da una inestinguibile sete di conoscenza, quasi volesse assorbire in sé il mondo, come il bambino di undici anni del Sillabario:

"Un primissimo pomeriggio d'estate del 1940, con aria fresca e radio accese nelle case, un bambino di undici anni "ultrapromosso", con un orecchio difettoso, figlio unico e sempre tenuto d'occhio dalla madre, fu tentato da un amico più libero di lui e scappò di casa per qualche ora con i pattini a rotelle che amava più di ogni altra cosa al mondo."12 
 
Nel dicembre del '75, in uno scritto introduttivo a "Guerre politiche", raccolta di quattro réportages su Vietnam e Biafra, Laos e Cile, Parise esaminerà le ragioni che lo hanno portato a questa scelta di vita sempre mobile, spesso rischiosa, non di rado in mezzo a guerre e rivoluzioni, ma nessuna risposta è quella risolutiva, e alla domanda "Perchè questi viaggi?" risponde alla fine molto semplicemente "Sono i casi della vita".
In realtà, la vera risposta il lettore la trova più avanti, dove Parise scrive:

"...Personalmente, dopo tutti i miei viaggi, non me ne importa niente delle parole impegno o disimpegno, mostrando, nel così dire, un riprovevole disimpegno.
Lo confermo, sapendo a cosa vado incontro.
Il mio impegno, quando pensavo di essere impegnato, era questo: credere fermamente che, con le mie parole scritte, avrei informato e forse coinvolto nella sorte di alcuni ragazzi di quindici sedici anni, mandati a fare la guerra e disperatamente morti, alcuni lettori.
Forse sono riuscito e io ho sempre pensato e ancora penso che l'impegno di uno scrittore dovrebbe essere questo, che pare non sia più o non debba essere".13
 
Audio Parte 2
 

 
 
 
 

 
 
Pochi anni dopo il trasferimento a Roma, nel '63, il matrimonio con Mariola, ormai in crisi, finisce e Parise vive un momento di profonda prostrazione che trova eco in un lavoro teatrale, L'assoluto naturale, messo in scena da Franco Enriquez al Teatro Metastasio di Prato nel '68, con Valeria Moriconi e Renzo Montagnani come interpreti.

E' un'opera in cui Parise, pur partendo dal sofferto dato biografico personale, costruisce senza compiacimenti sentimentali un'analisi lucida e serrata del rapporto di coppia, indagando con graffiante ironia sull'eterna lotta tra desiderio e ragione incarnata nel binomio Uomo-Donna.
Ora Parise è pienamente inserito nella vita della capitale, ma l' ambiente a lui più congeniale è quello dei pittori della "Scuola di Piazza del Popolo" (Schifano, Fioroni, Festa, Angeli), artisti che si riuniscono al caffè Rosati o presso la galleria di Plinio de Martiis, La Tartaruga.
E' una generazione di artisti che lo affascina, perché in loro trova una giovinezza autentica:

"...senza quella polvere che porta sempre con sé la letteratura orologiaia e militante; belli, e se vogliamo anche dannati. Il principe, un vero Ahmed da Mille e una notte, era Mario Schifano..."14

Il rapporto che Parise manterrà sempre con il mondo delle arti figurative è molto forte e numerosi sono i suoi ritratti realizzati dai pittori conosciuti in quegli anni. 
Lo scrittore esercita un notevole fascino su quella generazione, e lui ama parlare di loro, ma non come autentico critico d'arte, bensì da artista capace di interpretare i molteplici linguaggi dell'arte.
Dice, infatti, in un intervento sul tema:

"...non ho fatto della critica d'arte bensì mi sono occupato di quella che potrebbe chiamarsi l' "aura" artistica, un' aura artistica emanata dai pittori, dagli scultori di cui mi occupo".

Nasce in questi anni l'importante legame, durato tutta la vita, con Giosetta Fioroni.

"...Giosetta Fioroni cammina in modo leggero, come camminavano le ragazze degli anni cinquanta quando andavano a scuola o a un ballo pomeridiano in casa di amiche...Certe volte ride in modo leggerissimo e si copre la bocca con la mano, chissà perché..."15
 
Proseguendo nel suo percorso letterario, con il romanzo Il padrone, Parise approda, nel '65, ad un diverso registro narrativo, lontano dai romanzi veneti.
E' un'opera intrisa di realismo e deformazione grottesca della realtà, che dà vita ad una bruciante satira dell'azienda moderna, segnata dalla totale alienazione dell'uomo ridotto a oggetto:

"Dovevo uscire da quel mio mondo veneto ristretto. Oggi i problemi si sono allargati, sono diventati internazionali, mondiali... La nevrosi è diventata la protagonista della nostra vita, la componente principale dell'individuo moderno. 
La nevrosi è usura della persona, senso d'inutilità, e nasce soprattuto dal rapporto spaventoso fra l'uomo e la marea d'oggetti che lo circondano...
Il mio romanzo è proprio la lotta fra due specie umane diverse, una delle quali vuole ridurre l'altra ad oggetto. 
E' la morte dell'umanesimo, disperante ma poetica e inevitabile. E' meglio un mondo di uomini oggetto inespressivi, piuttosto che il trionfo della violenza. E invece si corre irrimediabilmente verso la follia e la nevrosi.
La mia è una soluzione tragica, e non benefica: ma la realtà scientifica è crudele, Darwin e Freud ce lo hanno insegnato. La nevrosi porterà probabilmente nel futuro a forme diverse di comunicazione. Intanto, per esempio, provoca un'altra selezione naturale: la società elimina il folle, il pazzo. 
Sopravvive solo il più forte, chi ha una composizione chimica più adatta e resistente."16 
 
Nel '66 Parise pubblica Gli americani a Vicenza, un racconto scritto dieci anni prima, durante un breve ritorno nella sua città da Milano e lo definisce:

"...un'intuizione figurativa della funebre spettacolarità di oggetti americani (uomini e cose) che vidi cinque anni più tardi in America, carichi di tutto il loro falso splendore"

Nella prefazione alla raccolta postuma Gli americani a Vicenza e altri racconti pubblicata da Mondadori nel 1987, Cesare Garboli scrive:

Parise è stato lo scrittore più inaspettato e dotato che abbia esordito in Italia nel dopoguerra. Altri scrittori sono stati forse più importanti, meno improvvisati e avventurosi (e anche meno avventurieri), e vantano, culturalmente, più titoli di lui. Ma come talento naturale, come indipendenza di sensibilità e giudizio, Goffredo Parise era superiore a tutti (...). Disse Parise un giorno, se non ricordo male, che Moravia gli era stato amico e modello utile, e Comisso nell'arte. 
Penso che si riferisse proprio alla fase, più o meno, di questi racconti, agli anni Cinquanta, quando uscì svuotato dal primo libro e cominciò a trattare l'infanzia, i ricordi di provincia, le storie di paese con un taglio grottesco e caricaturale, più picaresco di quanto facesse negli stessi anni Fellini, e voltando le spalle, di colpo, al romanticismo.

Tra il '62 e il '66, trentatre racconti confluiscono nel volume "Il crematorio di Vienna", ancora un'analisi della violenza dell'uomo sull'uomo, descritta ora in prima ora in terza persona, che ruota intorno alla definizione: "il nazismo è nella vita quotidiana". 
Sul titolo dell'opera Parise spiega:

"...è una mia costante notturna, rintracciabile in tutti i miei libri... che scaturisce dalle frequentazioni di cimiteri e crematori e dalle prime folgorazioni culturali o sentimentali dell'adolescenza (Poe, Hoffmann, Novalis, Shakespeare ecc.) che per mia fortuna o disgrazia mi svegliavano dalle sonnolenze scolastiche"17

Gli anni di Roma sono dunque vissuti da Parise molto intensamente e consolidano la sua identità di scrittore famoso e importante firma del giornalismo, ma già sul finire degli anni '60 si avverte in lui una certa stanchezza, una sorta di saturazione di quella vita frenetica, dei salotti e dei rituali della mondanità da cui spesso ricava solo noia.

La Fioroni fa un'attenta analise di questo Parise:

Una componente che descrive bene l'intensità caratteriale di Goffredo era la terribile sofferenza dovuta alla noia.
La noia poteva farlo patire fino a procurare veri e propri malori. All'inizio della nostra conoscenza lo trovai nel bagno di alcuni amici noiosi, dai quali eravamo a cena, semisvenuto che cercava dl umettarsi la faccia. Sempre la noia a contatto con persone senza unisono, senza vitalità, faceva nascere in lui un violento desiderio di fuga. A Ponte di Piave prendeva la bicicletta e cercava di scappare. In città usciva improvvisamente di casa e abbandonava gli ospiti se si creava una situazione noiosa. Oppure a casa d'altri scompariva letteralmente con l'abilità di un prestidigitatore. Detestava anche i cosiddetti convenevoli, quelle formalità sociali tutte fatte di luoghi comuni e bugiarde gentilezze, e riusciva con una sua brusquerie a evitare questi passaggi obbligati nei rapporti con gli altri (lasciando spesso i presenti esterrefatti).
In compenso, se individuava nelle persone, in un amico o amica, qualcosa che amava, era prodigo nell'incoraggiamento, nell'affetto, nella predilezione. E con quella capacità che era tipicamente sua, di suscitare con forza Immagini e Visioni, riusciva a raccontare storie e eventi particolari, sia nel tono della voce che nella scelta delle parole. E con lo sguardo puntato, Goffredo poteva rendere plasticamente una storia, un aneddoto, influenzare l'ascoltatore (o il pubblico), trasmettere molte sensazioni e sfumature, in una parola, agire su di lui profondamente.18
 
La sua natura "amichevole" gli ha procurato molte conoscenze, ma non sente il calore della vera amicizia e, soprattutto, non avverte l'aria di una casa veramente sua:

Non mi piace stare a Roma e sono un'anima in pena, molto più che un tempo.
Vorrei una casa con qualche rumore di gocce di pioggia, qualche difetto legato alle intemperie, una donna o una moglie vagamente elastica nella pelle.......magari chissà, anche un figlio, meglio una figlia. Che ci fosse carenza di ombrelli nella casa e fosse qualche volta anche un po' fredda d'inverno...19

Uno dei confidenti prediletti è, come sempre, l'amico Comisso:

...Quanto al successo io l'ho già avuto all'età di 23 anni, l'ho conosciuto in tutte le sue vacue e sciocche forme, mi ha dato una grande tristezza.
Gli scrittori scrivono: ebbene, io sono uno scrittore che non ha voglia di scrivere. Sento che non è possibile, dato il mio temperamento, esprimermi senza passione, o senza ira, o senza sentimenti, e questi mi mancano o non sono abbastanza forti in questo momento da spingermi a scrivere. Tuttavia scrivo lo stesso, quando mi vien voglia, e lascio lì a depositare. Il globo è coperto da una valanga informativa e presuntuosa, di libri e di giornali, non vale correre la gara della presenza, essa è una gioia effimera che non mi soddisfa e non mi ha mai attratto. Non cerco il perfezionismo ma il dire ciò che sento di dire e quando lo sento.
L'arte dello scrittore, come tutte le arti, oggi, non è richiesta in nessun senso: nemmeno dai pochi. E' cioè qualcosa di inutile non dico alla società, ma perfino ai cuori dei pochi. Ciò che è utile oggi sono soltanto gli oggetti toccabili e azionabili meccanicamente: tra di essi la parola, l'ineffabile strumento che ci ha dato la natura, è simile a una farfalla tra gli ingranaggi di una macchina elettronica...20 
 
Audio Parte 3
 

 

1 - dall'epistolario dello scrittore presso l'archivio Parise a Ponte di Piave.
2 - dal Corriere della Sera, 15 ottobre 1972, in A. Spinosa "I dialoghi del Corriere. Goffredo Parise- Federico Fellini".
3 - dall'epistolario, cit.
4 - L'ultima messa in scena de "La moglie a cavallo" è dell'1 settembre 2007 a Salgareda, presso la casa di Parise.
5 - da uno scritto del 1961 pubblicato su l’Espresso il 13 dicembre 1987.
6 - da "Marilyn, dolce libellula umana" in Corriere della Sera, 2 gennaio 1983
7 - dall'introduzione a "New York", 1977
8 - da "Guerre politiche", 1976
9 - ibid.
10 - ibid.
11 - da " G.Amendola e G.Parise a colloquio" di M. Pendinelli in Corriere della Sera, 4 gennaio 1978
12 - da "Madre", inG. Parise, Sillabari,1982 
13 - da "Avvertenza" in "Guerre politiche", 1975
14 - Da "Scaglie di tartaruga"  in Corriere della Sera, 28 giugno 1983
15 - Da "Bolaffiarte", marzo-aprile 1975
16 - da un'intervista di Andrea Barbato, L'Espresso, 11 aprile 1965
17 - dal Corriere della Sera, 22 marzo 1970
18 - Da  Giosetta Fioroni, Appunti, 1987-89
19 - dall'epistolario dello scrittore presso l'archivio Parise a Ponte di Piave
20 - ibid.